Non so come sia nato lo slogan ma certo ora ce n’è bisogno, mentre nella mia infanzia e giovinezza era ovvio che questa festa nazionale appartenesse a tutti.
Quando mio papà spiegava la sua iscrizione all’ANPI dicendo che aveva «solo tenuto in mano un moschetto nei giorni della liberazione», era difficile fargli raccontare di più. Ora vedo che nel settembre 2005 di era messo a scrivere quei ricordi. Ma proprio in quel periodo è successa una cosa che l’ha interrotto (e questa è un’altra storia, come si suol dire). Non è andato oltre le prime due pagine, scritte a mano con la sua grafia minuta sul retro di fotocopie. Niente episodi eroici, niente rivelazioni storiche, niente intenzioni celebrative, semmai un certo senso dell’umorismo (il terzo paragrafo doveva intitolarsi «Formaggio e nostranèl»). Ma resta la prova che l’antifascismo era normale anche per un mite ventenne cattolico che era stato riformato alla leva e non aveva fatto il partigiano. Forse si stava un po’ schisci, per temperamento familiare, ma si ospitavano per la notte, prima che prendessero una barca, gli ebrei in fuga verso la Svizzera, dice la zia, e lo zio cui toccava la leva sotto la RSI scappò in montagna, fu arrestato e liberato per miracolo.
Siamo sulla sponda orientale del lago di Como (di quello che succedeva su quella occidentale già sapete).
Italia, Italia, cosa importa se si muore
28 aprile 1945 (?)
Il camion era fermo sulla strada circa all’altezza del sentiero che allora dalla via al Pontile di Coltogno (ora via Martiri della Libertà), fiancheggiato da un lato dalla vigna dei Pomi e dall’altro da vari orti, raggiungeva la Statale. Il motore era acceso, stava per partire, ma feci in tempo a salire sul cassone dove c’era già molta gente, partigiani, e anche dei giovani senz’armi. «Va’ e ritorna» era scritto sul camion e sul tetto della cabina era piazzata una mitragliatrice. Era diretto a Lierna, paese poco oltre il quale una colonna di tedeschi, ritiratasi da Bellano il 26 aprile, lasciata Varenna dopo uno scontro presso la stazione ferroviaria (con un morto per parte), si era fermata sotto la galleria prima di Olcio.
Lungo il tragitto, preso anch’io dall’euforia di quei giorni, sparai un colpo in aria con il vecchio moschetto che, con due bombe a mano, costituiva il mio armamento. L’otturatore aveva un difetto, il tubetto a nasello dopo ogni colpo doveva essere spinto in avanti, altrimenti il percussore non agiva. Un ragazzo forse di Noceno, che mi era vicino, volle il bossolo di ottone.
I tedeschi non avevano voluto arrendersi ai partigiani. Aspettavano gli americani e nel frattempo si era stabilita una tregua.
Arrivato a Lierna non trovai i compagni della squadra che dal pomeriggio dell’insurrezione (iniziata a Bellano il 26 aprile) aveva presidiato il posto di blocco sulla strada presso la stazione F.S. rimanendo anche tutta la notte. Mi recai vicino all’imbocco della galleria dove erano i tedeschi. Una mitragliatrice leggera era piazzata all’inizio della galleria. Nelle vicinanze si notava un gruppo di partigiani con divise nuove di color grigioverde e berretto con visiera, su cui spiccava una sgargiante stella rossa. Erano impazienti, avrebbero voluto attaccare i tedeschi, far saltare la galleria…
A quel punto il comandante partigiano Al (Aldrovandi) tenne ai presenti un breve discorso, invitando alla calma… «Di acqua ne abbiamo presa tanta, e ne dovremo prendere ancora…» (il tempo era alquanto minaccioso). Tra i comunisti qualcuno commentò: «Lo conosciamo. È bravo a tenere dei bei discorsi…»
Sotto la galleria era permesso il transito dei civili e a un certo punto scorsi Mario: arrivava da Milano in bicicletta, diretto a Bellano, e mi diede un passaggio: mi accomodai sulla canna della bicicletta, stando attento alle «uova» (le due bombe a mano che avevo in tasca, prelevate nella caserma dei carabinieri di Bellano il 26). Ci allontanammo e passando dal ponte della Valvacchera vedemmo i partigiani che lo stavano minando per precauzione, nel caso di tentativo tedesco di fuga verso la Valtellina. Non pioveva. Si sentiva un canto lontano: «Italia, Italia, cosa importa se si muore…»
Sventolando il tricolor bandiera
Dopo una notte di guardia al posto di blocco sulla statale, presso la stazione ferroviaria di Bellano, la mia squadra era andata alla caserma del Convitto per la colazione.
Il posto di blocco era stato da noi presidiato fin dal pomeriggio del 26 aprile, giorno in cui a Bellano era iniziata l’insurrezione. All’inizio circa del pomeriggio un interminabile suono della sirena del cotonificio Cantoni aveva dato l’annuncio. Tedeschi e fascisti si erano allontanati verso sud… Con il coscritto Antonio avevo fatto un giro passando dalla caserma dei carabinieri, aperta, nella quale ci lasciarono prendere alcune bombe a mano che mettemmo in tasca. Arrivammo poi alla piazza della stazione. C’era fermo un motocarro carico di moschetti. Li distribuivano, ne diedero uno anche a noi e fummo subito impiegati al posto di blocco. Un lungo palo sbarrava la strada in corrispondenza del sottopassaggio della ferrovia detto «la tomba». Dall’altro lato della strada c’era allora un piccolo garage.
Comandava la strada un partigiano armato di fucile mitragliatore, vestito in borghese, un montanaro della Val Varrone: ricordo che ai piedi aveva i tipici pedü di pezza, con suola a strati di stoffa cuciti tra loro e tomaia a punta, caratteristici della Valsassina e Val Varrone. Quando arrivava una macchina per passare, il palo veniva momentaneamente rimosso. Eravamo numerosi, ma, man mano che si avvicinava la sera e minacciava di piovere, qualcuno se ne andava per i fatti suoi. Io, Antonio ed altri rimanemmo tutta la notte. Passò il comandante della piazza «Renato», che scambiò con Silvestri, figlio di un ufficiale alpino, qualche parola sulla difesa del paese. Nella notte a un certo punto mi stesi un po’ sul cassone di un autocarro nel piccolo garage. Sentii arrivare l’Ettore (Bernasconi – marinaio medaglia d’argento).
Spari nella notte. Al mattino alcune donne delle case vicine ci portarono il caffè.
Andammo quindi al Convitto, grande costruzione un tempo adibita ad alloggio delle operaie del cotonificio, poi trasformata in caserma degli allievi ufficiali della Repubblica di Salò e ora sede del comando di piazza dei partigiani della … [55ª] brigata Rosselli.
Ci sedemmo vicino a un gruppo di giovani partigiani di Premana, evidentemente cattolici garibaldini. Notai infatti che portavano sulla giubba una piccola croce e la corona del rosario. Si misero a cantare «Soffia il vento, infuria la bufera…» Cantavano bene, i promàn (i premanesi) hanno il canto nel sangue. E, arrivati alla fine, quando «il fiero partigian» torna a casa vittorioso, anziché «la sua rossa bandiera» risuonò nella sala un poderoso «sventolando il tricolor bandiera»!